Di: Francesco Silva
Sorvolando le ragioni che possono portare qualcuno a mollare tutto e acquistare una barca a vela in Nuova Zelanda, ecco come cominciò la mia odissea personale sul mio ketch in ferro-cemento vecchio di trenta anni chiamato Keturah.
Dopo tre mesi di preparativi fra Auckland e Opua, aspettando le ultime carte di trasferimento di proprietà e registrazione, avevo formato un equipaggio di “giovani coraggiosi” che dovevano -sul filo della scadenza del mio visto in Nuova Zelanda- aiutarmi a portare la barca fino a Figi per una prima tratta oceanica di circa 1100 miglia nautiche. Era fine Novembre, quindi con la stagione dei cicloni imminente era piuttosto il tempo in cui le barche da Figi tornavano verso la Nuova Zelanda in cerca di rifugio, ma per me non c’era scelta: dovevo partire ad ogni costo.
Venendo su da Auckland c’eravamo fermati alle impressionanti Great Barrier Islands (come fiordi Norvegesi), dove una mattina una balenottera ci aveva girato intorno mettendosi di fianco per darci un’occhiata. Avevamo passato dei bei giorni rintanati nelle baie interne mentre fuori impazzava il maltempo. Riuniti con altre barche giramondo meglio attrezzate, mi ero assopito davanti alla loro stufa a gasolio con un bicchiere di vino in mano, dopo aver dato una scorsa con i nostri ospiti alle carte ottocentesche degli atolli Figiani.
Incredibili sogni in quei pochi minuti davanti alla stufa!
A Opua il mio prode equipaggio si stava perdendo fra le bottiglie e le gonnelle dei bar per saccopelisti, mentre a Figi il Colonnello Voreque Bainimarama minacciava un imminente colpo di stato per porre fine alla corruzione del governo democratico e al crimine imperante per le strade. Questi elementi combinati, fecero sì che il mio prode equipaggio di avventurieri della domenica si volatilizzò a pochi giorni dalla partenza, mentre già nell’ancoraggio di Opua i fortunali si avvicendavano con venti sui cinquanta nodi e oltre. Non avendo perlopiù avuto i soldi per un fuoribordo anche minimo dovevo coordinare le mie uscite a terra con le maree: potevo farmi portare a terra con la marea uscente e poi mi toccava aspettare sei ore che la marea entrante mi riportasse alla barca, impossibile affrontare a remi gli effetti combinati di vento e corrente.
Una situazione poco allegra, ma per grazia forse divina riuscii a racimolare un ragazzino di diciotto anni americano con la testa piena di nozioni romantiche, e una ragazza italiana totalmente scevra da qualunque esperienza o conoscenza marinaresca. Spesso i più coraggiosi sono gli insospettabili, e raramente invece lo sono quelli che vanno in giro tronfi nella loro vanagloria.
Il giorno della partenza l’immigrazione mi contesta la mancanza di un foglio di esportazione definitiva, ma essendo io all’ultimo giorno di visto disponibile decidono di redigere il documento seduta stante, un’altra brutta sorpresa che l’intercessione del broker avrebbe dovuto appianare per tempo; come tutti i venditori, intascati i soldi se ne lavò le mani.
Finite le formalità a mezza mattinata, ce ne partimmo in una bella giornata di calma, circondati dai
delfini e usando il motore per uscire dalla Bay of Islands. Per due giorni andatura tranquilla con un sole debole e l’aria ancora ben gelida tipica della Nuova Zelanda.
Il terzo giorno, oramai ben lontani da ogni possibilità di dietrofront e con un vento e onda montanti, la timoneria decide di non rispondere più: la ruota sembra bloccata. Messo Austin alla barra di emergenza, vado a investigare l’ignoto meccanismo, scoprendo che la scatola ingranaggi della timoneria è tenuta insieme da solo due dei sei bulloni. Qualche criminale in una “manutenzione” precedente non aveva ritenuto necessario rimettere tutto in ordine…una pigrizia potenzialmente omicida. Fortunatamente fra la bulloneria assortita racimolo quel che mi serve, e un paio di ore dopo l’incidente, il tutto ri-funziona, ma nel frattempo un bello spavento (c’è chi si fa rimorchiare in porto dal salvataggio per molto meno).
L’attraversata continua con vento e onda in crescita, entrambi da poppa però, ed io, con l’incoscienza di chi ha appena comprato una barca, spinge al massimo, surfando a vele spiegate giù per onde di quattro metri che si frangono da tutte le parti e noi in mezzo che si va come treni. Nelle giornate più tranquille invece si mettono a segno le vele: Keturah in perfetto bilanciamento ha solo bisogno di un elastico per fermare il timone, il vento ben distribuito sulle vele tiene la barca in rotta meglio di quanto possiamo fare noi, che invece ne profittiamo per rosolarci al tiepido sole. Con questo stratagemma è capitato di non toccare la ruota per oltre ventiquattro ore.
Ogni giorno passa aspettando che con l’avvicinarsi all’equatore l’atmosfera si scaldi, ma a “sole” 400 miglia da Figi il freddo neozelandese è ancora lì a farci soffrire.
Nei giorni prima della partenza le notizie da Figi non erano certo rassicuranti: fra le proteste di ministri e dignitari, l’esercito si apprestava a dichiarare un coprifuoco e manovre di soldati antisommossa in città… definita un’esercitazione, in realtà una dimostrazione di forza per intimorire gli oppositori e un preparativo al colpo di stato vero e proprio. Anche nelle chat Melanesiane che avevo cercato di frequentare per sentire il polso della situazione mi avevano vivamente sconsigliato di arrivare adesso, ma non vedendo violenza aperta e alle strette con i tempi, mi sembrava di poter correre il rischio. Alla fine come stranieri non possiamo certo essere dichiarati complici di una parte o dell’altra, e il vantaggio di una barca è che se proprio le cose si mettono male si può sempre fuggire. Finalmente l’atmosfera si scalda, ma invece del sole troviamo temporali e grigiore minaccioso, passiamo a sole dodici miglia dall’isola di Kandavu senza accorgercene. Bainimarama avrà fatto il colpo di stato?! Troveremo la città in fiamme?