Di Eleonora Boggio
Lingue di terra tra Langhe e Roero. Un monastero francescano trasformato in hotel de charme tra i vigneti che hanno ispirato “la luna e i falò”. Al crocevia delle due più importanti capitali del nord Italia: quella Sabauda e quella Meneghina.
“Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti ed in mezzo alle mia colline mi sommuove nel profondo”
(Lettere, Cesare Pavese)
Sarà un caso ma è stata necessaria una spedizione nella Langhe per scoprire che con Pavese condivido una coincidenza significativa. Lungi da me accostare la mia prosaica scrittura a quella del poeta di Santo Stefano Belbo. Eppure un’analogia sussiste ed è siglata in una data: il 27 Agosto. Giorno di luce per me e di notte eterna per lui. Un’esistenza di angoscia solitaria quella di Pavese vissuta tra la morbide colline del barbaresco in cui anziane donne vestite di nero turbavano i sonni dei bambini.
Storie di masche
Erano persone che convivevano con l’isolamento. Di umili origini, vivevano spesso a fondo valle in case “che sembrava che un gigante ci avesse messo la mano su“. La solitudine forzata trasformava queste donne in masche, streghe ree di disturbare le notti dei contadini. È un piacere sentire Irene, nostro cicerone langarolo abbandonarsi ai ricordi di quando era bambina. Fino agli anni ‘70 si usava la sera incontrarsi per la veglia. Questo appuntamento quotidiano, in cui le donne cucivano e l’aroma secco del tabacco da pipa annebbiava le stanze, era la cornice per raccontare storie di masche. Come quella di suo nonno che smise di andare a trovare “la Marina” di cui si era invaghito quando una sera al solito bivio che portava in cima alla collina trovò una botte che cominciò a rotolare nella sua direzione impedendogli di raggiungere la destinazione. Spaventato tornò a casa decidendo di non ripetere più l’esperienza per non svegliare la masca Marina. Al di là del discutibile fondamento di verità presente all’interno del racconto resta una certezza il fatto che queste donne non avessero vita facile. Reputate streghe dalla collettività, si raccontava possedessero il libro del Comando, le cui regole restavano segrete alle poche adepte. Intolleranza, ignoranza e paura sfociarono nel rogo del 1953 in cui, complice la cornice della città di Alba, furono bruciati libri ritenuti dannati.
La Luna e i falò di Santo Stefano Belbo
Amore ed odio: in questa sintesi si esprime il rapporto che Pavese ebbe con la morbida realtà delle Langhe. Il ricordo, carpito con le lenti virato seppia dei primi sei anni di vita che cozzava con l’asprezza di un mondo contadino visto dagli occhi dell’adulto. Una filosofia di vita eclettica e fitta di contrasti. Facilmente riassumibile in quell’espressione che dice: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Il desiderio di un nido per, potere fuggire non appena questo cominciasse ad assumere le fattezze di una gabbia. Ed arriviamo all’ennesimo binomio di Pavese: realtà e finzione. ll più eclatante sebbene il meno immediato di tutti. Il nido, la mora, la minella sono luoghi simbolo materni ricettacoli dove trovare conforto. Così come la casa in collina; un’utopia vista da uno sfollato di Torino. Se questi posti erano utopie frutto della sintesi tra i ricordi di bambino e la realtà effettiva, altri luoghi non hanno mai cessato di esistere e meritano una visita: l’Albergo dell’Angelo, cornice scelta per l’annuale villeggiatura estiva. La casa della sua nascita sulla strada per Canelli, e un antico monastero che dominava la collina di Santo Stefano Belbo.
Un relais di monastero
Pavese non fu il solo a far volare lo sguardo sulla collina. Negli anni ‘70 dieci bambini, figli di altrettante famiglie, decisero che un giorno quel monastero tra Santo Stefano e Valdivilla sarebbe stato loro. E così fu. Oggi, a distanza di oltre vent’anni, gli occhi di Nadia Finelli, direttrice del relais si infiammano di una luce strana mentre conduce i suoi ospiti alla scoperta di questo gioiello trasformato in un hotel de charme: il relais san Maurizio. Le sue mura conservano ancora quell’atmosfera di tranquillità che regnava al tempo dei monaci. I pionieri furono i francescani che nel 1619 siglarono una convenzione con il parroco locale decisi a costruire un convento. Una seconda data certa riguarda il testamento di una nobildonna che destinò una cospicua somma di denaro “in reparatione ecclasiae sanctii Mauritii super finibus hiuis loci”. Passata la bufera degli eventi storici successivi al decreto napoleonico del 1802 che voleva la soppressione delle comunità religiose, il convento dopo un periodo di transizione nelle mani dei monaci trappisti fu acquistato dai monaci cistercensi per diventare, nel 1997, il sogno realizzato di quei quattro bambini. Inaugurato nel 2001, dopo un restauro di quattro anni, il Relais San Maurizio propone, anche a causa dei diversi passaggi di gestione, un sincretismo di stili. Dal jardin d’hiver, a picco sui colli, alle cantine dei monaci dove si aggira una piccola donna depositaria dei segreti del gusto piemontese.
Guido, la griffe di Costigliole
E’ Lidia, che ogni giorno scende nelle segrete della cucina del relais per stendere una pasta sottile come un’ostia base degli agnolotti del plin. Ogni tentativo per cercare di carpire il segreto che sta alla base del suo successo è vano. Lidia vi depisterà con una formula: 6 uova per mezzo chilo e tre tipi di arrosti come ripieno. Vissuta nell’ombra del successo del marito Guido da cui prese il nome il tempio della gastronomia langarola premiato con una stella Michelin, Lidia Alciati è da sempre stata la chef di Costigliole. Un tempo il ristorante si trovava nel piccolo paese distante pochi chilometri in un luogo pittoresco ma allo stesso tempo angusto. Per questo la decisione, al momento dell’inaugurazione del relais San Maurizio fu automatica e da allora le cantine del monastero risuonano dei passi di quella donnina ultra settantenne che giocando con tartufi e barolo è diventata a pieno titolo il cucchiaio d’argento della cucina locale.
Da un tubero ad un’università
“Il tartufo è il Mozart dei funghi”
(Gioacchino Rossini)
Fu un piatto di uova in camicia velate da una spolverata di tartufo a sedurre il compositore di opera. Delizia papillo-gustativa ed elemento indiscusso di vanto delle Langhe è dato dal fungo ipogeo più famoso al mondo: il Tuber Magnatum Pico. Erroneamente confuso dai suoi scopritori con un tubero il tartufo ha un apparato radicale costituito da un intreccio ramificato e molto esteso, di filamenti biancastri; le ife. Humus ideale per proliferare sono le radici dei pioppi, di tigli, querce e salici. Il suo frutto è costituito da una massa carnosa, la gleba, rivestita da una corteccia, il peridio. Formato in alta percentuale da acqua e sali minerali, il tartufo bianco assume colorazioni differenti determinate dalla pianta con cui vive in simbiosi: si va dal bianco con venature rossastre, al grigio tendente al marrone. Patria del tartufo bianco è certamente Alba che portò questo frutto all’onor di cronache. In primis nel 1903, con l’Esposizione Agraria Industriale che, giunta alla sua quarta edizione ebbe come ospite d’onore Vittorio Emanuele III re d’Italia, e la regina madre Margherita di Savoia. Dal 1949 su iniziativa di Giacomo Morra, titolare dell’Hotel Savoia in testa al cardo che divideva in due la città romana di Alba, a cadenza annuale, il miglior tartufo venne offerto ad un personaggio illustre. La prima a guadagnarsi l’ambito trofeo fu Rita Hayworth, quella Gilda che, sfilandosi un guanto, fermò il mondo seguita da Hanry Truman, e Winston Churchill. Fu poi la volta di Sofia Loren, Marilyn Monroe, Luciano Pavarotti e perfino l’avvocato Agnelli in una lista di nomi illustri in cui non è estromesso neppure il papato come testimoniano i nomi di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il culto del tartufo ha raggiunto livelli così elevati da portare alla creazione di un’università ad hoc. Si trova all’interno del Castello di Roddi e ai partecipanti non è richiesto un particolare diploma di Maturità. Indispensabile è, invece, un buon fiuto. Gli iscritti sono giovani segugi che addestrati con il metodo del riconoscimento olfattivo su piste prima circoscritte e poi sempre più ampie, imparano a distinguere le tracce del fungo afrodisiaco. Con o senza pedigree.
Le colline dei vigneti
“Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Ancora la Luna e i Falò per procedere l’itinerario delle colline dei vigneti. Il fiume Tanaro taglia una valle profonda dividendo il territorio delle colline tra Langa e Roero. Un territorio grigio e verde, afoso e nebbioso, gretto e fine, silenzioso e vociante che permette al visitatore una caccia al tesoro tra scorci e colline di città e paesaggi; croce e delizia di Pavese. Abbandonando Alba, capitale delle Langhe, le colline si vestono di filari dedicati alla produzione di vini di alta qualità. Mentre i vitigni si susseguono ininterrotti, il Castello di Barolo sede dell’enoteca regionale e antica dimora dei marchesi Falletti si affaccia sulla valle del Belbo. Bas-rol, questo il nome di una fortezza che, a dispetto della sua altezza, rappresentava una poderosa roccaforte difensiva. Tornante dopo tornante la statale procede percorrendo colline intrise di misticismo ed eresie. Come quella dei Catari, che nel IX secolo a Monforte d’Alba costruirono una comunità, tutelati dall’ala della Marchesa Scarampi che li difese fino al giorno in cui, deportati a Milano, furono bruciati nella piazza che ancora oggi prende il nome dal luogo in cui nacquero. Il ricordo dei Catari è ancora vivido nella tradizione locale; come testimoniano il quartiere quattrocentesco in cui botteghe e taverne rivivono i trascorsi passati. Una visita al Castello di Grinzane Cavour, che ospita il salone degli stemmi e la camera da letto dove soggiornò Camillo Benso sindaco dell’omonimo paese, completerà il percorso sulle tracce del Barolo. E poi? Si possono seguire i filari di Barbaresco e visitare il comune di Treiso con la sua torre rossa. Attraversare il centro storico di Neive, perdersi nel dedalo di botti dell’Enoteca di Mango per ritrovarsi ancora una volta a Santo Stefano Belbo, da dove tutto era iniziato. Per fermarsi a respirare i sapori di una “terra che attende e che tace”, vissuta da gente forte e determinata a far sì che “il Mestiere di vivere” si trasformi, per l’ospite, in piacere di vivere.
Come arrivare:
Le Langhe si trovano a meno di due ore di strada dalle città di Milano, Genova e Torino. L’uscita autostradale è Asti Est.
Dove dormire:
31camere uniche e preziose fanno del Relais San Maurizio un hotel de charme. Dominando la collina di Santo Stefano Belbo l’hotel si trova in Località San Maurizio, 39.
Dove Mangiare:
Tappa d’obbligo è il ristorante del Monastero, alias Guido da Costigliole che ha sede nelle cantine del monastero, in due ambienti con botte a vista e volte a botte. Gestito dalla famiglia Alciati propone piatti della tradizione abbinati a vini di pregiatissima etichetta.Per rivivere l’atmosfera dei carmina burana ineguagliabile a Monforte d’Alba L’Osteria dei Catari. Il locale, fresco di un attendo restauro, riporta allo stile delle osterie medioevali. Ubicato all’interno di un’antica casa del quattrocento nel centro storico di Monforte D’Alba, paese incluso della D.O.C.G. del Barolo.