Di Isabella Pesarini
La metropoli milanese pulsa di arte, nel periodo appena post EXPO. L’obiettivo è preciso: andare a vedere la mostra di Gauguin al Museo delle Culture di Milano, il MUDEC. Il problema conseguente è altrettanto preciso: quando andare per evitare ore e ore di fila? Abbinando una coincidenza dietro l’altra, ecco che la soluzione si presenta da sola. E così nel giorno più improbabile per la società lavoratrice milanese entro al MUDEC. Zero minuti di coda.
MUDEC, Museo delle Culture di Milano. Entrata alla Mostra di Gauguin.
Un manifesto fucsia sorride con una delle opere tahitiane più note dell’artista sintetista. Varco la soglia e rimango stupita, letteralmente a bocca aperta, dall’allestimento: perfezione di gioco di luce e ombra, un percorso a pilastri di tela colorata su cui sono montate le opere, ospiti e protagoniste di un percorso senza precedenti. Le settanta opere vengono presentate dal capolavoro “Donna con fiore”, la prima opera che illumina il visitatore tanto è luminosa, un ritratto di Tahiti in stile impressionista europeo. Il percorso a sezioni, suggerito dalla disposizione delle opere, mi porta a riscoprire la storia artistica di Gauguin, associandolo non più solo all’esuberanza dei fiori dell’isola esotica; egli è riproposto nella sua interezza, nella sua capacità di osservazione di trovare, di celebrare l’eccezionale nel dettaglio del quotidiano, come esplicato chiaramente nel “Nudo di donna che cuce”, un connubio di impressionismo per la luce e realismo nei contorni. Mi innamoro diverse volte, passo dopo passo, opera dopo opera. Il primo colpo di fulmine è dettato dalla sorpresa che alcune opere, a forma di piccola mezzaluna, scaturiscono nella mia conoscenza dell’artista evidentemente superficiale. Mai avrei immaginato che Gauguin avesse tratto ispirazione diretta dall’arte giapponese contemporanea, in modo quasi spudorato! I tratti, i temi, i colori, pure la forma stessa dell’opera, un’improbabile mezzaluna orizzontale, rievocano lo stile figurativo del Sol Levante. Percepisco l’attrazione della ritrattistica del quotidiano. Ecco un autoritratto, datato 1885, informale, lo sguardo del soggetto, quindi del pittore, perso, distratto all’orizzonte, verso chissà quale sogno. E anche io, spettatrice ricettiva del quadro, divago lo sguardo altrove, curiosa. Una fortuna imperdibile! Scopro così dei paesaggi di campagna francesi del periodo impressionista, tratti delicati che riscoprono l’eccezionale nell’usuale, fosse anche una capanna di paglia con un contadino al lato, quasi uscente, dell’opera. Gauguin osservava. Gauguin sapeva osservare. Le figure più semplici, più umili, sono sempre più protagoniste dei quadri di Gauguin, come suggerisce un primo piano della “Ragazza bretone”, evidentemente ritratta in un momento di riposo, uno scatto d’arte quasi privato.
Gauguin è anche scultura! Da un improbabile crocefisso, all’esaltazione del feminino, dalle riproposte di arti primitive e mitiche su oggetti di uso comune, quali le brocche e le coppe, alla ricerca dell’equilibrio della coppia uomo-donna, Gauguin stupisce: il legno, un ciliego ora dipinto, ora quasi dipinto, anche un legno grezzo, parla per intarsi, racconta per immagini, permette la fantasia giocando tra archetipi e simbologia. Gauguin rimane sempre legato al sogno di Tahiti, all’evasione nell’esotico, alla riproposta dell’arte pittorica figurativa di linea primitiva. Lo sguardo si sposta verso “Il divertimento dello spirito maligno”, dove l’abitudine associativa di Gauguin all’esotico trova soddisfazione. Eppure è sufficiente girarmi completamente dal lato opposto per rimanere abbagliata da un’opera poco conosciuta, affatto studiata, un capolavoro di chiariscuri, di romanticismo tematico, di tratto e di colore, di gioco emotivo: il “Vascello al chiaro di luna” incuriosisce ed emoziona, tanto è improbabile per la generica conoscenza della pittura di Gauguin.
Mostra di Gauguin, seconda sezione. Pausa multimediale.
Una tenda scura mi incuriosisce, lascia uno spiraglio aperto, uno spiraglio di luce. L’invito a entrare è esibito, accolgo l’invito e trovo una zona relax di approfondimento biografico dell’artista con la proiezione a schermi sovrapposti della lettura della biografia di Gauguin interpretata teatralmente dall’attore Fabio Timi. Ricordo un Gauguin anche cupo, sperimentatore, forse anche in modo eccessivo, dell’amore, tante donne, altrettanti figli, la sua fuga nell’esotico dalle prove della realtà di tutti i giorni, la ricerca della comprensione della sua arte. E, spesso, l’evidenza dell’insoddisfazione di questa ricerca dell’affermazione del suo interno all’esterno.
Mostra di Gauguin, terza sezione. Avvio all’uscita del MUDEC.
L’ultima area espositiva è la più luminosa, anche la meno spaziosa. Le sorprese di preannunciano ravvicinate! Rimango qualche minuto ad osservare la valigetta portacolori di Gauguin, in legno intarsiato da un artista locale del lontano mondo esotico, una perfezione geometrica di motivi ripetuti per la compagna più fedele dell’artista. Mi imbatto nel “Paesaggio tahitiano con nove figure”, un’esuberanza di colori e della figura umana, esaltata sui gesti più semplici e spontanei. Ritrovo conferma del fatto che Gauguin e la natura sono un unico linguaggio: la “Natura morta con fiori” esalta la stessa perfezione di varietà fiorita che Van Gogh ripropone nelle sue “Rose”, anch’esse esposte alla mostra. Il percorso ripropone altre sculture sul tratto primitivo, archetipo-simbolico. Prima di avviarmi all’uscita, noto come le opere siano arrivate da Copenhagen, dal Museo d’Orsay di Parigi, da collezioni private, da Los Angeles … Alla fine, il desiderio di Gauguin per la comprensione della sua arte è arrivato. Rido un’ultima occhiata al manifesto di entrata. Non è un caso se la mostra al MUDEC è stata battezzata “Racconti dal paradiso”.